Check your ego at the door
esattamente quando siamo passati dal ballare Black&White in cameretta al coprire la ricrescita bianca ogni mese?
We Are The World è stata registrata in una sola notte.
Qualche giorno fa ho visto il nuovo documentario Netflix su quella notte, un racconto di come i più geniali artisti pop di sempre siano riusciti, in poche ore, a dare forma ad un capolavoro eterno.
Mi è piaciuto moltissimo, anche perché ero reduce da “Bolt: un eroe a quattro zampe” con Alice e Camilla.
C’è Michael Jackson, co-autore del testo, che arriva prima di tutti agli studi di registrazione e inizia a provare da solo fregandosene della cerimonia degli American Music Awards, dove, invece erano - quasi - tutti gli altri. Per me che sono cresciuta ballando la sua Black & White in cameretta con mia cugina, è stata una conferma di impeccabile buon gusto.
C’è Prince che, in realtà non c’è. È agli American Music Awards, appunto, a vincere 4 premi. Rifiuta l’invito, poi ci ripensa e alle 4 di notte richiama proponendo di registrare un assolo di chitarra in un’altra stanza. Lionel Richie, udite udite, gli dice di no.
C’è un coro improvvisato di Banana Boat, c’è la richiesta di un fish burger di Tina Turner, c’è l’attacco di panico di Bon Dylan che non riesce a cantare il suo assolo stordito dalla situazione e viene “salvato” da Stevie Wonder che inizia ad accompagnarlo - ed imitarlo - al pianoforte.
E poi c’è quel cartello, che ha fatto la storia, e che è la mia storia di oggi.
Check you ego at the door.
Lasciate il vostro ego alla porta.
Lo scrive a mano Quincy Jones mente aspettava che arrivassero tutti e lo appende all’entrata degli studi di registrazione, ben visibile.
Oltre ad un’irrefrenabile voglia di farne un quadretto in metallo dorato di quelli che vedi nelle case instagrammabili e che recitano frasi motivazionali tipo Good Vibes Only oppure Think Big, questa frase mi ha fatto venire in mente un sacco di cose da dimenticare.
Ego è una di quelle parole che non ce l’ha fatta, a cui il destino ha riservato un trattamento meschino.
Nata con tutte le buone intenzioni del mondo per riferirsi all’ IO interiore di una persona, ha finito col diventare un termine spregiativo che si associa automaticamente a qualcosa di cui faremmo volentieri a meno. Tipo il pastello beige, lo spigolo del comodino e il nome proprio di persona Chanel, per esempio.
La parola Ego deriva dal latino e significa letteralmente “io”, per cui rappresenta generalmente la propria persona e la coscienza di essere chi siamo. E fino a qui, tutto bene. Poi è arrivato Freud con la storia di Ego che cerca di bilanciarsi tra le pressioni del Super-Ego e le paure dell’Es, che tanto mi ricorda la storia di noi mamme lavoratrici “equilibriste” in Italia. A metterci il carico da novanta sono arrivati i neuroscienziati con la storia dell’Ipertrofia dell'Io, ovvero dell'importanza eccessiva che spesso attribuiamo al primo cervello, dove risiede l’Ego, relegando sullo sfondo emozioni e istinti.
Certo, se è troppo stroppia, si sa, e vale anche per l’ego. D’altronde il nuoto è uno sport completo, non esistono più le mezze stagioni e si stava meglio quando si stava peggio.
Ma in questo trionfo di luoghi comuni e perbenismo a vagonate, siamo sicuri che lasciare Ego alla porta sia la soluzione?
Se quegli artisti non avessero avuto quell’IO sarebbero stati chiamati per varcare la soglia degli studi di registrazione quella notte? Dubito.
L’intento di Quincy Jones era nobile, il messaggio era chiaro anche se “grammaticalmente” opinabile. Non ci sono protagonisti qui ma solo professionisti.
E il confine tra protagonismo e professionalità è davvero labile e siamo circondati da esempi di sconfinamento che, a tratti, diventano delle fastidiose inondazioni di “siamo i migliori” e “come noi nessuno mai”, tipo i quadretti in metallo dorato delle case instagrammabili.
E lo capisco se questa “ironia” fatta da una che ha chiamato la sua azienda “Leader” vi sembra maldestra, ma posso spiegare. Era da un pò che mi promettevo di dedicare una cassandrata alla storia dietro la nascita di Leader.
Chi mi conosce è abituat* ad associarmi ad UP Finance, il servizio di lead generation per il settore finanziario che gestisco da innumerevoli anni. UP Finance, però, è un marchio di proprietà di Leader srl. L’ho fondata nel 2018, quando al terzo mese di una gravidanza gemellare ad altissimo rischio ho pensato bene di cambiare lavoro e cambiare città come se il cambiamento di vita che mi aspettava non fosse già abbastanza. Ma ne parliamo un’altra volta.
Al momento di scegliere il nome pochi giorni prima dell’appuntamento dal notaio, avevo zero idee e onestamente anche zero voglia di cercarle. Avevo già fatto una scelta impegnativa mandando a cagare il ginecologo che mi “consigliava” di tenere un solo feto, uno a caso per la precisione, giusto per stare più serena.
Il nome Leader lo ha proposto mio marito. Uomo, bianco, in salute, istruito e benestante. Un privilegiato, insomma. I miei neuroni avevano solo voglia di assecondare e annuire, tra un conato e l’altro, ma stranamente, quel nome mi è piaciuto davvero, dal primo momento. C’era il focus sulla Lead Generation, c’era l’idea dietro di un hub virtuale che mettesse in connessione le aziende con il “leader digitale” giusto per le sue esigenze e, ovviamente, c’era la percezione di un EGO che, scoprirò subito essere fondamentale.
Se avessi lasciato l’ego fuori dalla mia porta e dalla mia azienda, non avrei resistito una settimana. L’ho dovuto tirare fuori e sventolare ai quattro venti ogni volta che mi sono sentita dire:
“Ma ne parlo con lei o mi mette in contatto con chi di competenza?”
oppure
“C’è Andrea? Ero abituato a parlare di budget e cose del genere con lui”.
No, mi dispiace. Ci sono io, solo io. Ma ho tutte le competenze necessarie per fare quello che le serve e farlo bene. E, guardi un pò, posso anche parlare di soldi.
Ma non voglio entrare nel merito di questa dinamica (leggi patriarcato), il punto ora è un altro.
Il nome altisonante e l’approccio selettivo hanno svolto una preziosa funzione di “attivatori” della percezione che hanno reso la mia proposta, agli occhi dei clienti, più affidabile di altre. Nonostante tutto il resto (leggi, ancora, patriarcato).
Noi vendiamo percezione. Noi compriamo percezione.
La percezione è un processo neurobiologico complesso il cui risultato orienta le nostre scelte, i nostri desideri e le nostre preferenze. Si tratta di un processo tutt’altro che semplice o standardizzabile, ed è per questo che c’è sempre più bisogno di neurottimizzare: analizzare, restare all’ascolto, approcciarsi alla complessità in termini di vantaggio ed etica.
Ovviamente, quello che propongo poi mi impegno a farlo bene davvero, altrimenti gli stessi processi che attivano la buona percezione, si riattivano nella direzione opposta. E lì non si mette bene.
Nel marketing la coerenza crea fiducia. Se il tuo messaggio è costante, il tuo “pubblico” saprà cosa aspettarsi da te e dal tuo brand. E la fiducia addosso ha proprio un buon profumo.*
Ho iniziato a studiare per prendere la seconda certificazione in neuromarketing, quella avanzata. Con la prima ho acquisito delle competenze per neurottimizzare landing page ed il copy in ottica di advertising. Con la seconda voglio salire di quota, uscire dalla mia zona di comfort, quella dell’advertising, e ampliare la panoramica verso la granularità emotiva per affinare la strategia nel vertical finanziario dove, ahimè, si tende ancora a iper-semplificare, a ridurre i fenomeni multiformi a schemi binari, a parlare di “target” da colpire e si continua sostanzialmente a dire e a fare quello che dicono e fanno gli altri.
Scegliere di comprendere ci mette nella posizione scomoda di ammettere di dover ancora imparare.
Ho iniziato anche la nuova edizione del Master in digital marketing dove sono io ad insegnare qualcosa, sperando di condividere anche il valore della complessità e dell’importanza di affrontarla per costruire strategie di comunicazione predittive in grado di creare non un contatto, ma un legame.
Tra le altre cose che ho iniziato c’è anche la dieta, l’antibiotico e due libri. È andata così: un giorno ho compiuto 30 anni e da quel momento si è avviato un lento ed inesorabile declino. Si comincia con le piccole cose: un dolorino lombare che non hai mai avvertito prima e le rughette d’espressione, per poi renderti conto che il tuo metabolismo è diventato sedentario almeno quanto te e che devi prendere appuntamento ogni mese dal parrucchiere per coprire la ricrescita bianca. Tuttavia non credo che la motivazione di questo decadimento fisico sia solo anagrafica, lo stile di vita che conduciamo è senza dubbio poco salutare e se ti trovi a condividere i metri quadri calpestabili concessi dal tuo mutuo con due della “generazione Alpha”, stai pur cert* che tutti i virus nel raggio d’azione sceglieranno te come vittima prediletta, e non per pochi giorni.
Probabilmente è per questi motivi che in molti, decisamente troppi, finiscono per cadere vittime dello yoga, meglio noto come l’oppio dei popoli contemporaneo. Non sono un medico ma sono abbastanza sicura che assumere troppo a lungo posizioni così scomode sia controproducente per la salute di chiunque. Grazie lo stesso, preferisco tenermi la protrusione lombare.
Alla prossima!
p.s. fisico in decadimento permettendo, a fine mese sarò a Berlino per il meeting internazionale conclusivo di ADA, il progetto europeo che seguo e che mira ad incentivare la formazione STEM delle donne e l’avvio di imprese digitali femminili (Leggi: finalmente di nuovo la mia doppia uso singola).
p.p.s. No, non dico niente sull’8 marzo. Si è detto fin troppo per i miei gusti. Spero solo con tutto il cuore che tra dieci anni accada davvero:
*Nota last second su La fiducia addosso ha proprio un bel profumo: ho appena chiuso una call con un cliente che più che storico definirei fedelissimo, nel senso che fa un pò quel che gli pare ma torna sempre. Abbiamo programmato l’ennesimo ritorno e alla fine della call mi ha detto “Cassà, grazie assai, sei la numero uno”. Non è il miglior esempio di riconoscimento di professionalità (leggi, ancora un volta, patriarcato), ma ha fatto sorridere sia me che, sopratutto, il mio ego.