Non ho amato da subito le mie figlie.
Non ho provato quell’inebriante invasione di gioia nel giorno in cui sono nate.
Non ho potuto.
Ve la racconto come è iniziata la mia maternità. Non ne ho parlato prima perché volevo parlarne dopo. Dopo la festa della mamma, quando nessuno parla più di mamme. Passato il Santo, passata la Festa, si dice da me.
Alice e Camilla sono nate il 16 agosto - si, al fresco! - con cesareo programmato a 32 settimane come da protocollo per le gravidanze gemellari mono-mono, cioè monocoriali e monoamniotiche. Stessa sacca e stessa placenta, per intenderci. La più rara delle gravidanze gemellari, e la più rischiosa.
Quella mattina c’erano almeno 10 persone in sala parto tra primario, ostetriche, anestesista, infermieri e pediatri neonatologi. Tutti ineccepibili, niente da dire.
Ad accogliere Alice e Camilla appena venute al mondo non c’erano le braccia di mamma e papà ma due incubatrici. Nessun contatto, possono a stento farcele vedere per pochi istanti. Io neanche le vedo perché mi hanno fatto togliere le lenti a contatto.
Nel giro di 10 minuti la sala operatoria inizia a svuotarsi. Restano in due a ricucirmi per un tempo che mi è sembrato infinito, interminabile. Parlano di una ricetta nuova provata la sera prima.
Non parlano con me. Nessuno parla più con me.
Il vuoto e il silenzio. Intorno a me e dentro di me. Dentro quella pancia che era stata così affollata fino a pochi minuti prima.
Aspetto.
“Scusate, la gioia? Dov’è?”
“Dov’è quella felicità immensa, la grande bellezza di cui tutti parlano? L’avete vista per caso? Dovrebbe già essere qui, che succede? C’è traffico? Sta arrivando? Stanza 3, primo piano, c’è anche l’ascensore, dai!”
Non sento niente, che fregatura.
Quando nasce un bambino nasce anche una mamma, dicono.
Io ci ho messo un pò di più, 30 giorni in più per la precisione. E anche Alice e Camilla.
Ci sono voluti 30 giorni prima che quei due esserini nati di 1,6 kg e 1,4 kg diventassero figlie, pronte alla vita e io diventassi madre, pronta alla maternità. E alla stanchezza. Tanta stanchezza.
Ok, ora dobbiamo fare una cosa importante altrimenti questo monologo non ha un cazzo di senso.
Dobbiamo fare un esercizio.
Tornate un pò indietro e rileggetelo quel paragrafo evidenziato in giallo.
Fatto?
Forse state cercando di visualizzare la piccolezza di Alice e Camilla che pesavano quanto una busta di fagiolini o forse state annuendo al ricordo di quella stanchezza che avete provato anche voi, o magari la state proprio vivendo in questo momento, la stanchezza.
State empatizzando con me, che vi sto raccontando questa storia. E quasi quasi vi verrebbe voglia di darmi una pacca sulla spalla per dimostrarmi affetto.
Il potere lo detiene sempre chi racconta perché chi racconta mostra il suo punto di vista e noi vediamo le cose per come le vede chi le racconta. E quindi empatizziamo con chi le racconta, tifiamo per chi le racconta. (cit.)
Ma in quella parte del racconto, in quel paragrafo evidenziato in giallo, io vi ho ingannato.
Ho condizionato il vostro punto di vista perché vi ho raccontato SOLO il mio punto di vista.
In quella parte del racconto, in quel paragrafo evidenziato in giallo, c’è un grande assente. IL grande assente.
Rileggiamolo:
Quando nasce un bambino nasce anche una mamma, dicono.
Io ci ho messo un pò di più, 30 giorni in più per la precisione. E anche Alice e Camilla.
Ci sono voluti 30 giorni prima che quei due esserini nati di 1,6 kg e 1,4 kg diventassero figlie, pronte alla vita e io diventassi madre, pronta alla maternità. E alla stanchezza. Tanta stanchezza.
In realtà, il 16 agosto, i 30 giorni successivi, i mesi successivi, gli anni successivi… c’era anche Andrea, il papà.
C’era in sala operatoria, c’era quei 30 giorni in reparto, ogni pomeriggio dopo il lavoro, con guanti, camice, cuffia e copriscarpe per infilare una mano nell’oblò dell’incubatrice - un giorno da Camilla e un giorno da Alice, per evitare contaminazioni - e c’era quando ero stanca io, ed era stanco pure lui.
Se non si racconta anche la paternità, non li risolviamo i problemi della maternità perché, alla fine, se non siamo un Paese per mamme è anche perché non siamo un Paese per papà.
Il patriarcato ha ancora il controllo della narrazione della maternità.
Pensate a quello che abbiamo visto, letto e sentito domenica scorsa, in occasione della Festa della Mamma.
Abbiamo assistito alla consueta narrazione della mamma come unica, inimitabile e soprattutto, insostituibile.
“La mamma è sempre la mamma” è la panacea di tutti i mali. Ecco, l’ho detto.
E i papà? Nel dubbio, nell’indifferenziata?
“Ma il primo contatto del bambino è con la madre, non con il padre”.
Alice e Camilla hanno sentito la mia mano dopo 10 giorni e le ho potute tenere in braccio dopo altri 10.
“Ma il padre non può allattare”.
Neanch’io ho potuto.
“Ma il padre non lo porta in grembo per 9 mesi”.
Neanche una madre adottiva. Nel dubbio, anche lei nell’indifferenziata?
La scorsa settimana, pochi giorni prima della festa della mamma, è stato pubblicato Le Equilibriste, il report annuale di Save the Children sulla maternità. Parla del divario di genere nell’ambito lavorativo, del peso della cura familiare, della difficile conciliazione tra lavoro e figli.
Mi piace l’accostamento della parola “equilibrista” a “mamma”, lo trovo molto più pertinente rispetto a “insostituibile” o, ancora peggio, “invincibile”.
Rispetto al report del 2022, c’è un dato nuovo particolarmente interessante: anche i papà manifestano una crescente esigenza di conciliazione tra lavoro e famiglia.
Parità di genere vuol dire parità di opportunità e parità di responsabilità, tanto al lavoro quanto in casa. Io nella parità di genere ci credo e vorrei tanto che diventasse realtà, ma pare che, nella migliore delle ipotesi, ci vorranno altri 132 anni.
Quando nasce un bambino nascono anche i genitori. Dicono.
Io e Andrea ci abbiamo messo un pò di più, 30 giorni in più per la precisione. E anche Alice e Camilla.
Ci sono voluti 30 giorni prima che quei due esserini nati di 1,6 kg e 1,4 kg diventassero figlie, pronte alla vita e noi diventassimo genitori, pronti alla maternità e alla paternità. E alla stanchezza. Tanta stanchezza.
Alla prossima settimana!
p.s. Il potere lo detiene sempre chi racconta e per fortuna ci sono brand che sanno raccontare bene, molto bene. Ikea, nella nuova campagna “Proudly second best” è riuscita, in pochi istanti e “in silenzio” - lo sapete che il marketing rumoroso non mi è mai piaciuto, preferisco la “spinta gentile” - a suscitare empatia, attivare la riprova sociale e parlare di genitori e non banalmente solo di mamme.
p.p.s. La prossima settimana sarò ad Atene per un meeting tra i partner del progetto ADA (formazione + mentoring per donne che vogliono avviare nuovi business digitali). Il primo pilot è terminato e analizzeremo i feedback per proseguire con le nuove unità formative. Il secondo pilot inizierà a giugno e sono aperte le candidature! Starò via 3 giorni perché non sono insostituibile e il papà se la cava benissimo.
Ciao Cassandra, volevo ringraziarti per questi spunti! Non sono mamma, ma ho sempre avuto un rapporto speciale con mio padre e credo, come te, che sia fondamentale prima di tutto da parte nostra, come donne, mantenere la centralità del loro ruolo nella narrazione. C’è chi può interpretarlo come patriarcato e chi, invece, semplicemente come uguaglianza.
La pubblicità di Ikea…wow!